giovedì 28 novembre 2013

"Venezia nel piatto", ai fornelli c'è Enrica Rocca

Enrica Rocca durante una "cooking class" nel suo appartamento a Venezia. I suoi allievi sono turisti e appassionati di cucina
Venezia - Puoi riempire una valigia dopo l'altra, fare tuoi stili di vita opposti a quelli con cui sei cresciuto. Ma ovunque si vada e qualunque cosa si faccia, l'unico linguaggio universale resta il cibo. Attorno a un tavolo imbandito si torna alle origini di piccole e infinite opere d'arte che nascono dalla natura per vivere in bocca. A casa di Enrica Rocca accade tutto questo. Con ospiti sempre diversi, che entrano in cucina come allievi e poi diventano commensali: incontri fugaci di un giorno, un’altra Venezia da mostrare a chi arriva da fuori. «A tavola» dice lei «crollano le inibizioni. Si parla di tutto, ci si lascia andare e il bello è farlo con persone che non si conoscono».
E sarà interessante, domani, scoprire cosa ci propone il nuovo libro di Enrica, "Venezia nel piatto...ma che piatto!", edito da Marsilio, corredato dalle foto di Jean-Pierre Gabriel e dall’introduzione di Pierre Rosenberg, presidente e direttore del Musée du Louvre. E' un libro dedicato alla memoria gastronomica veneziana e i piatti sono fotografati su (autentici) vetri di Murano.
Fra un piatto e l'altro, meglio prendere appunti
Discendente di una nota famiglia veneziana, Enrica Rocca ha negli occhi l'entusiasmo di chi è riuscito a salire in groppa alla passione e a non scendere mai da sella. Da vent'anni tiene corsi di cucina a casa sua. Essendo una giramondo, le sue case sono più d’una: ha iniziato a fare scuola a Cape Town, dove ha vissuto per quindici anni, ha proseguito con Londra e ora ha inaugurato i corsi a Venezia. Per stare dietro a tutto, la regola è una sola: non fermarsi mai e liberare le idee. Le sue parlano di basilico fresco, pomodori polposi, sposalizi fra carni, frutta e ortaggi. 
A conoscerle meglio sono gli stranieri che vengono in vacanza a Venezia e, nella visita turistica, includono un corso di cucina italiana nel suo modernissimo appartamento alle Zattere. Oppure i londinesi “stanziali” o di passaggio che la raggiungono nella sua abitazione british per la lezione: a seconda delle opzioni, il costo va dai 200 euro in su a persona.
Trascorrendo una giornata intera con Enrica, che a Venezia comincia con il tour del mercato di Rialto e finisce con una cena a casa sua, si impara ma, soprattutto, si assapora la vita del cibo. Le indicazioni sulla scelta dei prodotti freschi e di qualità esulano dall'astrazione a onor della creatività: fra i banchi degli ortaggi, della frutta e del pesce di Rialto, e dei mercati londinesi di Portobello e Borough, si tocca e si annusa per credere e per capire. E poi si agisce a suon di mestoli e coltelli, fili d'olio e spruzzate di sale.
"Studenti" stranieri a lezione da Enrica Rocca a Venezia 
Il suo appartamento veneziano è attrezzato per ospitare dalle otto alle dieci persone; il tavolo è grande abbastanza per permettere agli ospiti di affettare melanzane e zucchine in libertà; il forno è sempre acceso, infaticabile è l'attività delle tre lavastoviglie. In poche ore, i programmi culinari della giornata si trasformano in risotti allo zafferano, fegatini alla veneziana, tortini di zucchine e ricotta, arrosti di vitello al rosmarino e code di rospo. al prosciutto di Parma. I vini di accompagnamento sono studiati e introdotti da un sommelier esperto, a Venezia il compito è di Lorenzo Menegus.
Celebrata nelle riviste internazionali, amata dagli stranieri e quasi sconosciuta ai concittadini, Enrica Rocca non si ferma: prossimo obiettivo, la conquista di Tokyo.

Testo e immagini di Silvia Zanardi

Link alla pubblicazione su "La Nuova di Venezia e Mestre"

martedì 26 novembre 2013

Quando a Venezia si incontrava la regina

In questa immagine di Giovanni Puppini, una giovane regina Elisabetta si fa fotografare in Piazza San Marco, a Venezia

Venezia - Uscivi da scuola, ti levavi la maglietta e prendevi a calci il pallone fino a ora di cena. A Carnevale c’erano le giostre in Campo Santa Margherita e le sirene non annunciavano l’acqua alta: quando arrivava bisognava “cavarse ’e scarpe e tirarse su ’e maneghe”. La vita era quasi tutta fuori. Fuori dagli umidi pianterreni devastati dall’ “acqua granda” del ’66 e il più possibile dentro a una Venezia così bella da far dimenticare la miseria. Passeggiando per San Marco poteva capitare di sfiorare la mano di una giovane regina Elisabetta, ma c’erano vecchiette di Cannaregio che così “in là” non si erano mai spinte: in Piazza ci si doveva andare in “ghingheri” e non erano cose da tutti. Ma la neve, come oggi, arrivava per tutti bianca e lucente a coprire d’inverno palazzi e campanili, a stendere un velo di silenzio da ammirare da dietro le finestre. 
Giovanni Puppini mostra il suo libro sulla Venezia anni '60
In questo spaccato di Venezia anni Sessanta, Giovanni Puppini, classe 1941 e socio del circolo fotografico “La Gondola”, era un giovane fotoamatore che di mestiere insegnava geografia economica all’Algarotti. Girava per la città con la macchina fotografica appesa al collo e si fermava a scattare quando l’occhio chiamava: di ritorno da una giornata di scuola, in una domenica di festa, all’arrivo di grandi personaggi come i reali d’Inghilterra o Papa Paolo VI. Per pura passione, e con una buona dose di talento, ha impresso nei suoi rullini in bianco e nero tracce di una vita veneziana a cui si guarda con la classica nostalgia per un presente lontano. Sono stralci di quotidianità che, dopo la pensione, Puppini ha raccolto, diviso per tema e pubblicato in un libro, edito da Cierre Grafica, intitolato “Venezia anni Sessanta”, introdotto dall’accurata prefazione di Giuliano Zanon. “Mi è sempre piaciuto fotografare», racconta Puppini. «L’ho fatto per hobby e continuo a farlo anche oggi, a colori e in digitale, anche se la mia passione resta l’analogico».
Nel suo archivio casalingo, Puppini custodisce migliaia di scatti di Venezia e di alcuni viaggi all’estero compiuti con le sue classi scolastiche e con la moglie Franca. Oltre a innumerevoli ricordi in formato 6x6 degli altri suoi “amori”: la montagna e la voga. Da qualche anno, mettendo a frutto il tempo libero concesso dalla pensione e dividendosi fra la fotografia e i suoi pomeriggi da nonno, ha iniziato a selezionarli. Le pagine di “Venezia anni Sessanta” sono un tuffo nella città dai quasi duecentomila residenti che oggi si cerca nei libri e nei racconti. «A Cannaregio, dove abbiamo sempre abitato, c’era addirittura un negozio di biciclette per i bambini», racconta Giovanni con la moglie Franca. «Turisti se ne vedevano pochi e quei pochi erano ricchi e altolocati. Si sa che Venezia è cambiata, ma noi siamo contenti di vivere ancora qui: stiamo bene e non abbiamo mai pensato di trasferirci in terraferma, non sarebbe la nostra casa. Siamo e restiamo veneziani».
Ecco come ci si "arrangiava" con l'acqua alta
La città in bianco nero di Giovanni Puppini è quella dei pescatori che rammendano le reti lungo le calli; quella dei campi pieni di ragazzini che giocano a cimbali e a massa e pindolo; quella dei ganzer, i gondolieri in pensione che in cambio di un obolo, con un bastone munito di gancio (il “ganso”, in veneziano), aiutano le gondole ad accostarsi agli ormeggi. Ma è anche la Venezia del periodo postbellico, con la densità abitativa ai massimi storici ma singhiozzante e sofferente per la crisi dei comparti tradizionali: l’Arsenale, l’attività industriale del Molino Stucky, il cotonificio, il porto, i cantieri navali. Una crisi che aveva portato miseria, disoccupazione e precarietà, culminata con la disastrosa acqua alta del 1966, che ha privato molti veneziani delle condizioni minime per vivere in salute nel centro storico. Giovanni ha fotografato tante acque alte ma di questa, nel suo archivio, non c'è traccia: «Quella mattina, la macchina l’ho lasciata a casa», racconta Giovanni. «Sembrava che ci fosse stato un bombardamento. La situazione era drammatica e dovevo dare una mano. La fotografia era l'ultimo dei miei pensieri».

Testo di Silvia Zanardi, foto di Silvia Zanardi e per gentile concessione di Giovanni Puppini


lunedì 25 novembre 2013

Chi non ricorda la casa delle girandole?

La casa delle girandole così come la ricordano i veneziani. Zangrossi costruiva le sue opere all'ultimo piano dell'appartamento
Giada Carraro, autrice di una tesi sull'artista irregolare 

Venezia - Anche se non ci sono più, ormai da vent’anni, i veneziani le ricordano come se fosse ieri. Chiunque passi per Campo Castelforte, dietro San Rocco, alza lo sguardo verso la casa al secondo piano oltre il rio, dove un nonno buono, e tanto misterioso, ha tagliato, levigato e dipinto i sogni di tutti. Quella, dagli anni Sessanta fino ai primi anni Novanta, è stata la casa delle girandole, la piccola fabbrica di soli, stelle, fiori e lune ipnotiche di Donato Guido Zangrossi, autore di un universo così personale da aver conquistato il cuore e i ricordi di intere generazioni. Non c’era studente che, prima di sostenere un esame, non andasse a vedere da che parte giravano le vorticose pale che ne “vestivano” la facciata: se giravano dalla parte giusta il buon esito era assicurato. In caso contrario si rischiava la bocciatura. L’intonaco della casa al civico 3792 di Corte dei Preti non è più scrostato come un tempo e le magiche girandole sono sparite poco dopo la scomparsa di Zangrossi, avvenuta nel 1992.
Di quelle creazioni fantastiche, nate dal legno e dalle sue abili mani di artigiano, non è rimasto quasi nulla. Quattro di esse erano state inizialmente salvate, su iniziativa della giornalista veneziana Antonella Barina, negli spazi della scuola materna San Marziale, successivamente oggetto di un restauro nel quale sono andate perse; altre sembrano invece essere state distrutte da un violento temporale. Sulle loro tracce, da un anno e mezzo, si sta muovendo una ragazza di Castelfranco Veneto, Giada Carraro, che di recente conseguito il diploma di specializzazione in beni storico-artistici all'Università di Bologna, con una tesi sulle architetture fantastiche in Veneto.

La sua tesi fa parte del più ampio progetto di ricerca “Costruttori di Babele” e gran parte dell’elaborato è dedicata proprio alla casa delle girandole, alla figura di Donato Zangrossi, e al destino, purtroppo triste, delle sue leggendarie opere d’“arte irregolare”, tali perché mai riconosciute dall’arte ufficiale. A raccontare la genesi e la storia della casa che faceva tornare tutti un po’ bambini, sono rimasti pochi documenti. Uno di questi è il documentario “Il nonno bambino” girato, nel 1995, da Enrico Norbiato e Manuel Righetto, due giovani studenti che all’epoca frequentavano l’Accademia di Belle Arti.
Un'altra foto storica della casa magica
Giada Carraro ne parla nella sua tesi, che presto vorrebbe trasformare in una pubblicazione sull’opera di Zangrossi: “Sono alla ricerca di immagini d’epoca, racconti e testimonianze che riguardano la casa delle girandole. Rivolgo un appello a tutti affinché mi aiutino a raccogliere materiale su questa immensa eredità di Venezia”. A conservare aneddoti e ricordi limpidi di Zangrossi – che dopo la pensione, negli anni Sessanta, si è dedicato alla costruzione delle girandole schivando la notorietà – è il calzolaio Pietro Rizzi che, dall’artigiano, aveva imparato a riprodurre quei sofisticati ingranaggi per poi venderli ai turisti. Nella sua ricerca – che accenna anche alle fonti di ispirazione del nonno delle girandole, forse arrivate durante un periodo di lavoro nel padiglione Venezuela della Biennale – Giada Carraro parla di un altro caro amico di Zangrossi, Flavio Mussi, titolare dell’azienda Pilm International Group di San Vito del Tagliamento. “È proprio lui a conservare, oggi, una delle poche girandole rimaste – spiega Giada – L’aveva ricevuta in dono da Donato e aveva intenzione di riprodurne il modello su scala industriale, mettendo in commercio dei set composti ciascuno da almeno tre girandole. Purtroppo non riuscì mai a concretizzare l'intento”.

Testo di Silvia Zanardi

Link alla pubblicazione su La Nuova di Venezia e Mestre

venerdì 22 novembre 2013

Gabriele, mani magiche per scarpe extra-lusso

Gabriele Gmeiner nel suo affascinante laboratorio artigiano in Campiello del Sol, a Venezia

VENEZIA. Difficile non credere a quanto sosteneva Alberto Savinio. Uscendo dalla bottega di Gabriele Gmeiner viene da pensare che in alcuni casi, le scarpe siano davvero lo “specchio dell'anima”. Ma non è questa l'unica sorpresa. Quella più grande è vedere una donna che, in grembiule bianco, si aggira fra due stanzette da libro di letteratura con una tomaia di pelle in mano, intenta a pescarne la forma da un immenso grappolo di piedi in legno che penzola dal soffitto. Fra meno di due settimane, quella scarpa e la sua gemella verranno indossate da una signora o da un signore che le hanno volute esattamente così.
Se è vero che siamo a Venezia, precisamente nell'appartato Campiello del Sol (fra San Polo e Rialto), non sembra affatto di essere nella città soffocata dai turisti che cerca di difendersi dall'invasione della paccottiglia cinese. Sembra piuttosto di tornare indietro nel tempo, all'epoca in cui Venezia era una costellazione di botteghe artigianali ambite da tutto il mondo, preziose custodi dell'antica arte del “fare a mano”.
Da Gabriele Gmeiner, il tempo si è fermato. È arrivata qui dalla sua terra natale, l'Austria, 15 anni fa e, dal 2003, confeziona scarpe su misura e interamente cucite a mano per uomini d'affari, politici e professionisti di tutto il mondo. C'è chi prende aerei per Venezia solo per portarsi a casa un paio di scarpe firmate da lei, conciliando l'esigenza di un piede comodo con qualche giorno di vacanza.
«Per realizzare di un paio di scarpe ci vogliono ottanta ore di lavoro» spiega l'artigiana « Più o meno due settimane». E l'iter della creazione prevede anche una settimana di prova. «Prima dell'acquisto, è fondamentale che il cliente testi la comodità delle sue scarpe. Non devono avere difetti, ma essere l'abito perfetto per i piedi che lo hanno richiesto», aggiunge. La prova si può effettuare direttamente in loco, a Venezia, oppure a casa propria previa spedizione.
Chiamare scarpe le creature di Gabriele suona strano. Ci si può spingere oltre e chiamarle direttamente “opere d'arte” o anche “Ferrari in versione calzatura”. Non solo per le innumerevoli fasi che ne precedono la realizzazione, ma anche per il loro prezzi, cifre per piedi esclusivamente extra lusso. Per un paio, si va da un minimo di 2761 euro, iva compresa, a un massimo di 5.645, inclusa la scultura della forma di legno e la scarpa di prova. La differenza è dovuta, oltre che alle diverse tipologie di lavorazione, ai materiali che vengono utilizzati. A scelta, pelle di vitello; culata di cavallo; pelle di lucertola, di alligatore; oppure velluto seta tessuto a mano.
Quanto alle fasi dell'opera su misura, si parte dalla raschiatura della forma che Gabriele effettua a mano, includendo qualsiasi tipo di eventuale “difetto” osseo del cliente, e si procede con la realizzazione della tomaia. Si passa poi all'inserimento dei rinforzi laterali, sul retro e in punta, e alla battuta in forma per mezzo di innumerevoli chiodini che la tengono ben salda al legno nelle fasi di applicazione della suola, che verrà attaccata alla tomaia per mezzo di una fettuccia (il “guardolo”) cucita rigorosamente a mano. A scarpa fatta, l'anima in legno viene estratta dal corpo della scarpa come un dente del giudizio.
Dalla bottega di Gabriele Gmeiner escono una cinquantina di “esemplari” all'anno. Clienti veneziani? Uno solo, seppur Venezia sia città di benestanti camminatori. E se dall'estero arrivano i suoi clienti, con l'aereo atterranno anche i suoi apprendisti. Di lagunari che vogliono fare i calzolai nemmeno l'ombra. Tutti i giovani che vengono a Venezia per imparare la sua arte arrivano dalla Francia, dalla Germania, dall'Austria e addirittura dal Giappone. Ma dall'Italia e dal Veneto, patria storica dei calzolai, nessuno. Oggi c'è Paul, 21 anni, arriva da Monaco di Baviera ed è esperto in calzature ortopediche. «Mi piacerebbe molto che qualche apprendista si fermasse qui» dice Gabriele «ma essendo stranieri tendono a tornare al loro paese». Diversamente da quello che ha scelto lei quindici anni fa quando dall'Austria, dopo i suoi studi nel settore a Londra e Parigi e le sue esperienze lavorative con John Lobb ed Hermés, è venuta a Venezia per lavorare nell'atelier del maestro Rolando Segalin in Calle dei Fuseri e poi decidere di avviare qui la sua attività.

Testo e foto di Silvia Zanardi

giovedì 21 novembre 2013

Luciano Buggio, un falegname fra le galassie


Venezia - Davanti alla sua bottega si può fare una cosa sola: fermarsi e cercare di capire che cosa combini lì dentro. Impresa non facile: Luciano Buggio è un falegname, e la scritta “mobili riciclati” all’ingresso lo fa intuire, ma la sua vetrina è un’esplosione di fiori nati dalla sua fantasia, che trasforma in petali colorati i fondi delle bottiglie di plastica e i martelletti del pianoforte. Dietro il vetro si scorge anche una sfinge di legno, che in realtà è un piede di mobile rovesciato, e un esercito di omini metallici avanza di fronte all'ormai nota schiera di libri e dischi usati che riempie la calle di ricordi, sentimenti e vecchie passioni. Chi conosce Luciano Buggio almeno un po’ sa che il suo laboratorio, a un passo da Campo San Giovanni Evangelista, è molto più di questo.

Una sfinge di mobile e tanti fiori di bottiglia
È un piccolo universo dove si sta bene seduti a chiacchierare e guardarsi attorno per capire cos’altro ancora sa fare quest’uomo. Lì dentro, però, si parla soprattutto di fisica, astronomia, matematica, stelle, luce, fotoni e galassie, perché fra un mobile da riparare e una nuova creazione artistica, Luciano studia, si interroga sul perché di alcuni fenomeni e si dà delle risposte, per poi farne delle relazioni e pubblicarle sul suo sito internet personale: http://www.lucianobuggio.altervista.org/. Su google c'è chi lo cerca fra i professori accademici per approfondire le sue teorie, che spaziano dalla morfologia delle galassie all'anomalia del potenziale di Newton, ma lui con l’ambiente universitario non c’entra nulla. Luciano è arrivato a Venezia da bambino e da solo. Abitava a Staranzano (Gorizia) e alle elementari aveva dato prova di essere brillante, intelligente, molto portato per le materie scientifiche e avanti rispetto ai suoi compagni. Per questo, all'età di dieci anni, ha ricevuto una borsa di studio dal collegio Foscarini e si è fermato in laguna fino al diploma di liceo scientifico al Benedetti. E poi? Non ha pensato neanche per un minuto di iscriversi a una facoltà scientifica, perché l’ “indottrinamento”, a volte, può togliere freschezza e sana ingenuità all’intuito, che la maggior parte delle volte si rivela vincente. «Per inquadrare e sezionare i problemi bisogna essere fuori da schemi e teorie preconfezionate», spiega Luciano. «E poi a me interessavano le scienze umane, non tanto la matematica o la fisica fini a se stesse».
Impossibile non fermarsi di fronte alla sua vetrina
È andato quindi a studiare sociologia a Trento, nel periodo caldo e inteso delle contestazioni sessantottine, ha imparato il mestiere di falegname per mantenersi agli studi e poi è tornato a Venezia, ha fatto il prof nei licei per un paio d'anni - però l'insegnamento non era esattamente la sua - e poi è tornato a fare il falegname. Con la fisica si è ritrovato dopo diversi anni, precisamente alle sei del mattino del venti maggio 1992, quando un' “illuminazione” gli ha rivelato il modello matematico che descrive il movimento cicloidale dei fotoni, che ha naturalmente spiegato in un paper pubblicato sul suo sito. Da quel momento non si è più fermato: si è rimesso a studiare, a farsi nuove domande sul mondo e sulla natura.

Dalla luce e le radiazioni elettromagnetiche, è passato all'astronomia e al fascino delle buche di potenziale in cui si trovano le galassie “boxy”, gli universi quadrati di cui ora, nell'ambiente accademico, si parla molto grazie alla divulgazione di articoli e relazioni scientifiche. All’ingresso della sua bottega, Luciano ha appeso la gigantografia di una galassia boxy con tanto di bigliettini con l'indirizzo del suo sito internet, per chi fosse interessato ad approfondire un'intuizione che il falegname veneziano aveva messo nero su bianco ben prima di questo “boom” di pubblicazioni.
Nel suo piccolo universo dove le gambe dei mobili diventano cigni, gatti e uccelli, Luciano parla con l'energia incendiata di chi vuole capire, arrivare fino in fondo e fino alla verità, che cerca continuamente battendo il tasti del suo pc, stipato fra libri, quadri e pezzi di legno: «Mi farebbe quasi piacere che qualcuno “rubasse” una delle mie teorie», dice Luciano. «Avrei tutti i mezzi per dimostrare che c’ero arrivato prima io».

Testo e foto di Silvia Zanardi


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mercoledì 20 novembre 2013

Colori, sogni e cinema: quella è la casa di Bepi Suà


Burano - Lui non c'è più. Se ne è andato da questo mondo undici anni fa e sua sorella lo va a trovare tutti i giorni, percorrendo il lungo chilometro che separa la sua casa di Burano dal cimitero di Mazzorbo. Sono tanti i passi che dividono Albertina Toselli dal luogo in cui riposa “Bepi”, il “Bepi Suà”, classe 1920, che tutti i buranelli, perlomeno quelli di una certa età, conoscono e ricordano. Albertina fa fatica a parlare di suo fratello Giuseppe senza liberare quelle timide, e discrete, gocce di lacrime in cui sfoga tutta la sua nostalgia.

Ed è questo il sentimento che torna a farle visita ogni volta che, anche solo con lo sguardo, rivede l'esplosione di colori della loro vecchia casa in Via al Gottolo. Tutte le case di Burano sono colorate, ma quella che un tempo fu loro, nascosta dietro la più affollata Via Galuppi, non assomiglia a nessun'altra. Non a caso, infatti, quella facciata così originale, piena di cerchi, triangoli e rettangoli psichedelici, compare tutt'oggi in molte cartoline. Fino a qualche anno fa, fotografarsi accanto al “Bepi” della casa colorata – un tipo strano, un po' scorbutico ma simpatico – era un onore. Anche se, in verità, non era difficile riuscirci: lui era sempre lì, alle prese con colori e pennelli a decorare la sua casa. Non passava giorno che non lo facesse: se ne usciva dal piano terra con tutto l'occorrente e si metteva a dipingere, a sovrapporre il blu al rosso, a mescolare l'arancione con il giallo, ad accostare una linea di verde a una scacchiera fatta di viola e nero. E così, ogni sera, la sua casa aveva un aspetto diverso, una vita nuova, un nuovo sfondo da regalare ai turisti per le loro foto-ricordo.

Oggi, quella casa è dipinta come lo era nel 1985, perché dopo la morte “deo Bepi” 
– che tutti chiamavano (e chiamano) “Bepi Suà” per la sua abitudine di starsene fuori al sole senza curarsi delle magliette sudate – i muri, rimasti privi della sua amorevole costanza, si erano scrostati. E, nel 2005, scegliendo una delle tante fantasie accumulate negli anni, si è proceduto a un restauro che durasse a lungo. È grazie all'accurata ricerca della studentessa Giada Carraro, che Burano, lo scorso giugno, ha dedicato due giornate alla figura di questo artista autodidatta che si era riempito la casa di registratori, televisioni e pellicole. Bepi, infatti, non era solo un amante della pittura, era anche un incurabile appassionato di cinema e per conoscerlo, salendo sulla macchina del tempo, bisogna tornare al dopoguerra. Albertina, sua sorella, racconta come fosse ieri di quando, nelle serate estive, Bepi appendeva un lenzuolo alla facciata del magazzino di fronte alla casa e, con un'enorme macchina fai-da-te, proiettava cartoni animati, puntate di Stanlio e Olio da crepare dal ridere, e assurde “performance” del clown Ridolini.

Quanti bambini se la sono goduta, con il cinema all'aperto “deo Bepi”, che avrebbe voluto tanto lavorare come operatore cinematografico...Il suo patentino da autodidatta gli consentì al massimo di fare le pulizie al Cinema Favin, e quando il cinema chiuse, si mise a vendere le caramelle nel centro di Burano, provando a dimenticare i ricordi più tristi della sua infanzia: la fame, la miseria, la morte di entrambi i genitori quando lui e la sorella, ultimi di cinque fratelli, erano ragazzi. Scene da "Nuovo Cinema Paradiso", scene di vita vissuta che è un dovere ricordare.


Nel salotto della casa in cui oggi vive Albertina, che gli è stata sempre accanto, c'è ancora la poltrona dove Bepi ha trascorso i suoi ultimi anni di vita lottando contro la malattia. “Non riesco a spostarla – dice – Me lo vedo ancora lì”. 
Testo di Silvia Zanardi. Foto per gentile concessione di Alberta Toselli


martedì 19 novembre 2013

Pietro Rizzi, il calzolaio più fedele di Venezia


Venezia - Era il 1960, e in “Calle della Scuola” c'era un magazzino pieno di muffa, topi e immondizia. Pietro Rizzi aveva 23 anni, due mani che andavano a nozze con tacchi, suole, fodere e tomaie, e pochi grilli per la testa. Voleva fare il calzolaio, punto e basta. Ha preso quel mucchio di “scoasse” e le ha buttate via, ha dato una bella ripulita al magazzino e un po' la volta se l'è comprato, trasformandolo nella bottega in cui lavora da 52 anni e dalla quale sono passate tre, in alcuni casi quattro, generazioni di signore e signori.

Da oltre mezzo secolo, Pietro è sempre lì a cambiare cerniere agli stivali, a rifare a mano i tacchi di gomma, a mettere a posto le maniglie delle borse e ricucire tomaie sgangherate che vogliono resuscitare. Cinquantadue anni di passione, ma soprattutto di cambiamenti e di consolidato pendolarismo: «Mi alzo tutti i giorni alle 6.30, alle 7 prendo il bus e vengo qui». Pietro Rizzi ha 75 anni, è il calzolaio più anziano di Venezia e pare essere allergico a tutto ciò che è tecnologico: «Adesso per pagare l'Inps devo usare il “pin” – dice sconfortato – Ma cosa volete che ci faccia io con il pin, sono di un'altra epoca». 


E non c'è che dire: di un'altra epoca è lui, e lo è pure la sua bottega, dove tutto è rimasto immobile dagli anni Sessanta, eccezione fatta per le condizioni in cui arrivano le scarpe dei veneziani. Di fatte come “Dio comanda” se ne vedono poche e in alcuni casi non c'è speranza: «Davanti a certe cineserie di plastica getto la spugna», dice Pietro. 


E racconta la sua storia: «Io abitavo alla Giudecca, quando al Molino Stucky si faceva ancora la pasta e l'isola era il cuore industriale di Venezia. A 15 anni sono andato a lavorare nel negozio dove compravo le scarpe». «Così, dal nulla, il proprietario mi ha chiesto di dargli una mano nelle riparazioni ed è cominciato tutto – continua – 500 lire alla settimana, che più tardi sono diventate mille in una bottega di Venezia, e poi il matrimonio, il trasloco in terraferma e la mia vita qui». Ha lasciato da giovanissimo il centro storico perché, anche mezzo secolo fa, comprare una casa a Venezia era un'impresa da folli: «Io e mia moglie stiamo bene in terraferma, abbiamo avuto un figlio, un nipote e ora abitiamo a Zelarino».«Quando ho iniziato a lavorare c'erano oltre 200 mila abitanti e per fare bene il calzolaio dovevi marciare ed essere bravo: c'era una concorrenza spietata perché eravamo davvero in tanti – continua – Ora siamo meno di dieci. Venezia resta la mia città ma un po' mi mette tristezza».

Tristezza o no, comunque, lui se ne sta sempre lì, a due passi dalla Scuola Grande di San Rocco, in un cantuccio in cui i veneziani vanno a farsi riparare le scarpe ma anche a chiacchierare. Accanto al tavolo di legno che odora di mastice, ci sono sempre due sedie vuote. Tanti anni fa le hanno notate pure Alain Delon, che con Pietro si è concesso una pausa sigaretta (era una Gauloises) dal set di Marco Polo, e il caro “Foresto”, il ritrattista dei veneziani scomparso da poco nella solitudine con cui è diventato una dei più grandi illustratori del Novecento: «Quel Giorgio De Gaspari...lo ricordo come se fosse ieri. È venuto qui dentro con la barba lunga, il tabarro, la cartella dei disegni e un paio di zoccoli in stato pietoso – racconta - Pensavo che volesse la carità, invece mi ha chiesto di aggiustargli le scarpe gratis perché non aveva una lira. E guarda qui, accanto a me, cosa mi ritrovo? Un suo ritratto come ringraziamento. È uno dei regali a cui sono più affezionato».

Testo e foto di Silvia Zanardi

lunedì 18 novembre 2013

Lunga vita alle vele: Camilla le trasforma in borse


Non è solo il caso a far cambiare aria. Di mezzo ci sono le passioni e, nel caso di Camilla Morelli, la voglia di andare dove il vento soffia e il mare ispira. I suoi genitori l'hanno messa sugli sci quando aveva due anni, ma dalle montagne della Valtellina, dove è nata e cresciuta, è finita a cucire vele a Caorle e a riciclare brandelli di tessuti avanzati per trasformarli in accessori da mare e da città.
Quando, da ragazzina, Camilla è salita per la prima volta su una barca ha capito subito che, presto o tardi, avrebbe “tradito” la montagna per il mare. Lo ha fatto presto: non è una regatante ma una che naviga per passione e a 26 anni, dopo una laurea in lingue a Venezia e un corso per maestro d'ascia alla Certosa, tutte le mattine parte dal suo sestiere, Cannaregio, per andare alla veleria “Baraonda” di Caorle, dove lavora da un anno. Il suo capo, Paolo Favaro, non batte ciglio quando la vede mettere le mani nella spazzatura e pescare ritagli di tessuto, perché sa cosa diventeranno: borse, cinture, portafogli, astucci, portachiavi, tovagliette per la colazione e cuscini.


A fine giornata, dopo aver tagliato e cucito le vele commissionate dai clienti, in giro per la veleria ci sono brandelli di tutti i tipi: in dacron, kevlar, mylar, poliestere laminato, spectra, nylon, materiali forti, resistenti alle intemperie che, solo a guardarli, fanno venire voglia di mare. Camilla li seleziona, li raccoglie e li unisce a pezzi di vele già usate, dismesse e ancora piene di sale, provenienti da velerie di tutta Europa e destinate al macero. Ne fa un bel mucchio e si mette alla macchina da cucire da dove, ogni giorno, saltano fuori accessori, che sono ormai diventati un must tra gli appassionati di vela, e che sono distribuiti nelle librerie e nei negozi di nautica di tutta Italia.
“I nostri accessori hanno tutti una storia da raccontare: sia che provengano da vele da regata, da barche che navigano nel Mediterraneo, o da velerie che s'affacciano sull'Atlantico. Portano il sapore e l'esperienza di quei luoghi”, dice Camilla. E anche la sua, quella di una ragazza di montagna che ha scelto di vivere di mare, è una storia da raccontare.
“L'idea del riciclo mi è venuta nel 2010 in Francia, a La Rochelle. Lavoravo lì, alla veleria Incidences, e a febbraio una forte tempesta ha rovinato e sommerso di acqua e fango una grande quantità di vele. Ho cominciato a vedere i cassonetti riempirsi di questi preziosi materiali, che si usano per le grandi regate oceaniche, e non ho resistito: li ho caricati in macchina e me li sono portati a casa. Li ho lavati, asciugati e ho iniziato a cucirli”.

Buttare via pezzi di vele - i “muscoli” delle barche, come le chiamava Saramago - vorrebbe dire ignorare quanta energia e quanta storia hanno ancora da donare, forti come sono. Camilla ci pensa ogni volta, mentre li assembla per farli rinascere: “Navigare ha un grande fascino. Salire a bordo e andare dà un senso di libertà, avvicina l'uomo all'ambiente, lo fa stare a contatto con il vento e con l'imprevedibilità della natura» dice. «Ma gli sprechi, nell'industria nautica, sono all'ordine del giorno e più ci penso più cerco, nel mio piccolo, di trovare un modo per dare nuova vita a questi materiali, che possono avere un'altra, lunghissima vita. La nautica può diventare davvero un settore ecosostenibile, ma bisogna ingegnarsi di più”. Testo e foto di Silvia Zanardi

http://nuovavenezia.gelocal.it/cronaca/2012/08/21/news/la-ragazza-che-da-nuova-vita-alle-vele-1.5573734

Michele, il ragazzo delle forcole in plexiglass


Quando si parla di tradizioni, a Venezia, il pensiero va subito al vetro, alla gondola e agli antichi mestieri che hanno reso grandi queste arti nei secoli. Poi si passa alla riflessione sulla loro vita attuale, resa difficile dall'invasione del turismo di massa e dal commercio dei prodotti realizzati in serie. Imboccando il sentiero che attraversa, e spesso divide, storia e contemporaneità, un ragazzo della Giudecca ha scoperto l'arte che fa per lui. Si chiama Michele Garlato, ha 32 anni e scolpisce il plexiglass come fosse legno. Sembra impossibile che un materiale plastico e all'apparenza rigido possa prendere la forma di una forcola, di un fero da gondola o di una bricola. Eppure Michele riesce a domarlo e a riempirlo di vita e tradizione veneziana. «Ho iniziato per caso: dopo le scuole sono andato subito a lavorare e nel laboratorio di Andrea Giacomazzo di Ruga Giuffa ho imparato a lavorare il plexiglass - racconta Michele - Con il titolare, realizzavo lavori su commissione per l'arredo di interni».
E la storia è cominciata grazie all'incontro con Carlo Bianchi, un signore veneziano in pensione che aveva la passione della scultura e del legno: «Veniva spesso a trovarmi in laboratorio, è uno di quegli artigiani dalle mani d'oro che sanno fare di tutto - spiega ancora Michele -. Un pomeriggio mi ha detto: perché non proviamo a fare una forcola in plexiglass? All'inizio non pensavo di riuscirci, ma grazie ai suoi insegnamenti abbiamo fatto un ottimo lavoro». Dalla prima forcola (in miniatura) ne sono nate due, tre, quattro. Da quelle più semplici in plexiglass trasparente, Michele ha iniziato a sovrapporre lastre di colori differenti e a realizzare sculture multicolore: bianche e nere, rosse, gialle e verdi. E dopo le forcole è passato ai “feri” da gondola, alle bricole e addirittura alle bifore. «Per testare l'interesse del pubblico, ho iniziato a esporre questi oggetti in vetrina e a venderli - racconta Michele Garlato - Sono soprattutto i veneziani ad apprezzarli». Anche se la forcola è diventata, per il turismo colto, un oggetto di design che fa parte dell'arredamento di casa, non tutti capiscono immediatamente di quale oggetto si tratti: «In tanti si chiedono cosa siano questi oggetti, pur essendo attratti dalla loro forma. I veneziani, naturalmente, lo capiscono al volo e mi chiedono, per esempio, di reallizzare bricole o forcole per regalarle a matrimoni o compleanni».
Per il momento Michele non ha un negozio, e riesce a vendere i suoi oggetti - che nascono principalmente da materiali di scarto - attraverso attività in conto-vendita. «Aprire un negozio a Venezia sarebbe un sogno, ma so già che è impossibile: costi troppo alti, poche garanzie - spiega Michele - Per questo sto pensando di avviare un'attività in e-commerce, e quindi di commercio via internet». Le sculture di Garlato sono già state ospitate da due gallerie d'arte: nel 2010 alla Galleria d'arte Venezia, vicino a San Marco, e alla fine del 2012 dalla Galleria Berga di Vicenza. «Mi piacerebbe molto continuare con questo lavoro, sto cercando di partecipare a concorsi per giovani scultori e designer per continuare a formarmi e apprendere meglio le potenzialità di un materiale molto usato nella quotidianità», dice il ragazzo della Giudecca. Michele realizza le sue opere quasi interamente a mano. Non solo oggetti tipici della tradizione veneziana, ma anche complementi di arredo e accessori. «Naturalmente c'è chi si dimostra perplesso di fronte a una scultura in plexiglass, che assomiglia al vetro ma è di fatto un materiale plastico - conclude Garlato - La mia filosofia è però quella di riutilizzare il più possibile materiale di scarto proveniente dai laboratori, e dimostrare che l'artigianato e la tradizione veneziana passano anche da qui». Testo e foto di Silvia Zanardi

Lauretta Vistosi e le linee che non si incontrano mai



Lei le chiama “linee che non si incontrano mai”, e sono il suo marchio distintivo da quasi cinque anni. Due, tre, quattro o più linee di canetè che percorrono distese di lana, cotone, lino, seta e, in un punto qualunque, incrociano la loro corsa con una murrina piena di storia, ricordi, tradizioni.

È vero: le sue linee non si incontrano mai. Eppure Lauretta Vistosi si incontra con loro ogni giorno nell’angolo di colori, geometrie e creatività che in, Calle Lunga San Barnaba, divide con la sua Stellina: un muso simpatico e due occhi davvero fedeli. Nelle linee di Lauretta - che fanno la personalità delle sue famose borse, ma anche di agende, portachiavi, portaocchiali, cornici, collane e braccialetti - c’è l’inizio e la continuazione di una storia che insegna a credere nei sogni, ma ancora di più nei propri talenti. Lauretta ha sempre saputo di avere nel sangue quelli del disegno, della fantasia e della manualità. Lo sapeva anche da ragazzina, quando, fra le stanze della sua casa di Murano, vedeva passare Ettore Sottsass, Gae Aulenti, Angelo Mangiarotti o Eleonore Peduzzi Riva (tanto per dire). Erano gli anni d’oro della vetreria Vistosi, che negli anni Sessanta e Settanta realizzava oggetti in vetro soffiato con la firma dei più grandi designer del momento. Cose all’ordine del giorno, per una ragazza nata e cresciuta fra artisti e architetti, cose di cui pesi meglio il valore a distanza di anni: “Alle superiori ho fatto ragioneria – racconta Lauretta – Alla fine degli anni Sessanta, con il ’68 di mezzo, sembrava fosse la scuola migliore per assicurarsi un futuro”. Ma lei, a numeri e contabilità, preferiva altro: “Non c’entravo niente con quella scuola e non ho mai smesso di disegnare.
La stanza dove facevo i compiti era tappezzata di schizzi e dipinti e mi sono sempre immaginata una vita in mezzo ai colori e alle forme”. Prima di aprire, nel 2008, lo showroom dove oggi tutto questo si ritrova nell’architettura delle linee che non si incontrano mai, Lauretta ha fatto tante cose: ha lavorato a lungo nella commercializzazione del design e, in autonomia, ha realizzato burattini, disegnato e cucito vestiti e scarpe, pensato e “schizzato” prototipi di vasi in vetro “mai soffiato” e, soprattutto, ha cresciuto Gloria, la sua splendida figlia che oggi le fa da modella. Poi sono arrivate le borse, gli orecchini e le collane che in giro per Venezia tutti riconoscono come sue e che la Querini Stampalia ha inserito da subito nel “corredo” del suo bookshop. Lauretta realizza a mano ogni suo oggetto, nel retro di un negozio-laboratorio che esplode di fili, nastri, tessuti dominati da un piccolo esercito di canetè che più di un fotografo apprezza per la “texture” davvero originale. Ogni creazione di Lauretta ha un cuore di vetro, pieno del calore che ricorda le sue origini muranesi e la tradizione della vetreria Vistosi: “Tutte le borse e tutti gli oggetti che realizzo hanno una murrina – racconta – È un po’ il simbolo della storia che mi ha portato fin qui, nel piccolo mondo che ho a lungo sognato e che mi godo ogni giorno perché sento mio”. “La vita mi ha portato ad affrontare tante prove, a viaggiare per il mondo e tornare qui – dice ancora Lauretta – Ma ho avuto due grandi fortune: quella di crescere in un ambiente pieno di stimoli e creatività. E quella di sapere, da sempre, per cosa fossi portata”. Oggi, dietro a una vetrina sempre piena di spettatori, dice con piacere che “non bisogna mai rinunciare ai propri sogni, se riesci ad afferrarli ti ripagano ogni giorno”. A guardarle bene, le sue borse e le sue innumerevoli creazioni, un punto dove le linee si incontrano c’è: è dentro le murrine che ne contengono tutti i colori e, in fondo, sono l’inizio e la continuazione di una storia tutta veneziana. Testo e foto di Silvia Zanardi
Link alla pubblicazione su "La Nuova di Venezia e Mestre"