venerdì 10 gennaio 2014

Libri in vasca, in gondola, in barca e…in acqua

Luigi Frizzo è il titolare della Libreria Acqua Alta, una miniera di libri, aneddoti e segreti vicino a Santa Maria Formosa 

Su internet c'è chi la chiama "la libreria più bella del mondo”. Ma la si può descrivere anche come la più veneziana e fra le più bizzarre e originali in assoluto. Basta poco e si capisce perché: si chiama “Libreria Acqua Alta” e i suoi centomila libri in vendita, fra nuovi e usati, non sono sistemati ordinatamente in lineari scaffali ma accatastati in qualche mondo all'interno di barche, canoe, vasche da bagno e addirittura in una gondola con tanto di passeggeri (due bambolotti) che si sbaciucchiano.

In caso di emergenza, ecco la direzione
I giornalisti stranieri ne vanno pazzi; i giapponesi hanno realizzato quattro servizi per le loro televisioni; i turisti francesi e tedeschi, che leggono di questo posto nelle guide, ci vogliono andare a tutti i costi. La stravaganza di questo enorme labirinto di libri in Calle Lunga Santa Maria Formosa, ricavato da un magazzino al piano terra che l'acqua alta “abbraccia” puntualmente, non può però essere raccontata, né capita, senza conoscere il suo ideatore.
Si chiama Luigi Frizzo, ha 72 anni, si rivolge alle donne a suon di complimenti, parla perfettamente cinque lingue e ha girato in tutto il mondo. Ha avuto tre figli con tre donne diverse ed è diventato libraio a circa quarant'anni, dopo aver fatto il cameriere a bordo delle navi, il minatore, il carrozziere, la guida turistica e un'infinita serie di lavori saltuari in ogni angolo del globo. «Sono nato a Vicenza, cresciuto in Val D'Aosta e ho goduto della mia giovinezza a Tahiti, in Nuova Zelanda, in Canada, in Australia e in tanti altri posti - racconta -. Da piccolo pascolavo le mucche e aiutavo in miei genitori in campagna. E per strani percorsi della vita mi sono messo a fare il libraio». E che libraio: un seguace di Steiner che del motto “pensare, sentire, volere” ha fatto il leitmotiv della sua vita trasformando una libreria in mondo dove l'intelletto, le mani e la creatività sono una cosa sola. “Non si può solo leggere e studiare: bisogna anche fare, creare qualcosa con le mani – dice Frizzo - Solo facendo, si salta fuori: i libri parlano per insegnarci come agire”. 
Uno dei fedeli amici a quattro zampe di Luigi Frizzo
In mezzo ai libri di “Acqua Alta”, aperta nove anni fa, girano, mangiano e dormono quattro gatti, i volumi sono divisi per sezione e non esistono cataloghi digitali. Ci sono “chicche” introvabili sulla storia di Venezia, classici in lingua straniera, fumetti, stampe, cartoline, una galassia di esemplari sull'erotismo, e persino i profilattici del Casanova, che i turisti comprano come souvenir. Le uniche cose “tecnologiche” presenti nella libreria sono il telefono e la luce elettrica. A come trovare i libri che desiderano i clienti (il viavai è continuo) ci pensa Gianni Coppola, il fidato collaboratore di Frizzo che in mezzo a tanti mattoni di carta riesce sempre a pescare il titolo richiesto: «È come essere a casa. In casa tua sai sempre dove sono le cose, giusto? Ecco, io qui trovo sempre tutto a memoria». La libreria “Acqua Alta”, facile intuirlo, si chiama così perché, quando la marea cresce, Luigi Frizzo e Gianni Coppola vendono i libri con gli stivali di gomma addosso.
Tutto il mondo parla della famosa libreria, anche il Giappone!
In questo posto un po' “sconto” vicino a Campo Santa Maria Formosa, l'acqua entra che è un piacere e i libri, infatti, sono tutti sistemati a quindici centimetri da terra. 
L'idea di sistemarli in barche, vasche da bagno e in una gondola è venuta a Frizzo sia per rimanere il linea con il titolo, sia per dare un tocco di originalità alla libreria: «Mi sono portato qui un bel po' di canoe in disuso e una decina di vasche - racconta Luigi - le ho cercate apposta per mettere in salvo i volumi dall'acqua ma anche per dare un'identità a questo posto».
«E pensare che l'ho aperta quando volevo andare in pensione – continua – Ormai è diventata la mia casa e la casa dei miei amici, siamo sempre aperti e in piena attività». Con il Mose, forse, il titolo di questo regno di libri che può esistere solo a Venezia, inizierà a essere datato. «È tutto da vedere - chiude Luigi Frizzo -. Non mi dispiacerebbe che almeno qualche centimetro d'acqua venisse a farci visita ogni tanto. E nel caso in cui il Mose non funzionasse, e magari le maree diventassero ancor più eccezionali, in libreria abbiamo una porta d'acqua sempre aperta. Mal che vada ce ne fuggiamo da lì».
Testo e immagini di Silvia Zanardi
Link alla pubblicazione su "La Nuova di Venezia e Mestre"



mercoledì 8 gennaio 2014

Un pugno di gamberi e un lp di Elvis, grazie.

Paolo Bassich è un pescivendolo molto noto di Venezia , ma chi conosce la sua passione per il rock and roll?
Venezia - Frugando in quel mare di vinili, potrebbe spuntarne fuori uno rovinato, impossibile da ascoltare ma perfetto per raccontare la storia di Giampaolo Bassich, che a occhio e croce si può definire un uomo costante. Ha 67 anni e fa il pescivendolo da quando ne aveva 11; di recente ha festeggiato 44 anni di matrimonio e nel salotto del suo appartamento di Marghera ha oltre 4 mila dischi originali di rock and roll anni Cinquanta e Sessanta, che ha iniziato a collezionare quando era un adolescente. Il vinile rovinato potrebbe essere di Elvis, di cui Bassich possiede quasi tutta la discografia originale, oppure di Little Tony, uno dei primi cantanti a essere entrato nel suo giradischi, e rimanderebbe indietro ai pomeriggi degli anni Sessanta in cui i ragazzi di Mestre e Marghera affittavano le stanze delle case a 4 mila lire al giorno per le loro festine a base di rock and roll, aranciata e Vermut.
Paolo Bassich al lavoro in Campo Santa Margherita
«A forza di ballare abbiamo rovinato chissà quanti dischi – racconta – Ci siamo divertiti come matti, andavamo in giro per Marghera con il “pickè”, cioè il pick-up, e bussavamo alle porte delle case”. Da lì è iniziato tutto: la sua passione per il rock and roll e in particolare per Elvis Presley, di cui non solo custodisce come gioielli oltre 1.500 dischi originali, ma anche una ricca serie di libri e gadget del re del rock: dalle locandine dei film acquistate a fatica nei cinema della terraferma, alle “paper dolls” in mutande da vestire ritagliando le sagome di cartone a forma di camicia hawaiana o di giacca con le frange. Giampaolo Bassich è sicuramente fra i più grandi collezionisti italiani di dischi originali di rock and roll anni Cinquanta e Sessanta, da cui spuntano le perle di Jerry Lee Lewis, Chuck Berry, Beatles e Little Richard. In salotto ce n'è una buona parte, custodita con ordine, cura e criterio in un armadio costruito su misura per ospitare 45 giri, lp, cd, dvd e libri di varia dimensione, ma tanti altri tesori sono raccolti in scatoloni e bauli che Bassich tiene in altre stanze della casa.
La collezione RCA di "Loving You Teddy Bear"
La sua collezione è rara e piena di valore non solo perché comprende tutte le prime stampe dei dischi di Elvis, gran parte delle ristampe (con il marchio RCA, diventato successivamente RCA- Victor) e un universo di edizioni straniere dei suoi capolavori che arrivano anche dal Cile, dal Giappone e dall'India, ma anche perché narra la storia di un uomo, e di un lavoratore, che attraverso il rock and roll parla anche della sua vita. Lo sa bene chi va a comprare il pesce da lui in Campo Santa Margherita: «Mentre pulisco orate e branzini, provo sempre a chiedere se qualcuno ha dischi interessanti per me», confessa. «Ho iniziato a fare il pescivendolo a 11 anni, dando una mano a mio padre e da allora sveglia sempre alle tre del mattino, dodici ore di lavoro, e poi musica – racconta – Da ragazzo amavo vestirmi come i divi del rock e mi facevo fare tutto su misura. Per pagarmi il primo paio di scarpe che il maestro Segalin mi fece guardando quelle di Elvis nella copertina di “50,000,000 Elvis Fans Can't Be Wrong” fui costretto a vendere, un po' a malincuore, alcuni dei suoi lp».

Testo e immagini di Silvia Zanardi

Link alla pubblicazione su La Nuova di Venezia e Mestre

venerdì 20 dicembre 2013

I panettoni di Rosa Salva, una tradizione dolce



Lo staff della pasticceria storica veneziana "Rosa Salva" di Calle Fiubera. In questi giorni si sfornano i panettoni
Venezia - Inutile. Passano le epoche, cambiano i volti, le architetture, gli strumenti, ma il profumo di pasticceria lungo le calli è sempre quello che ti fa allentare il passo, per affidarti al sapore del caffè e a un fiore di pasta frolla che cambia la giornata. Finalmente, dunque, sta arrivando il Natale, il giorno in cui ci si ferma e si sta a tavola fino a tardo pomeriggio, l'unico dell'anno in cui, crisi o non crisi, il panettone è sempre di casa. Nel laboratorio della storica pasticceria veneziana Rosa Salva, in Calle Fiubera, questo momento è ancora un miraggio.
L'impasto del panettone dei "Rosa Salva"
 Lo sanno bene Ermenegildo Rosa Salva, per tutti “Lalo”, e i suoi figli Antonio ed Enrico, che insieme sono la sesta generazione dell'azienda gastronomica fondata nel 1870 da Andrea, il cuoco-pionere che mise le ruote alla sua cucina per portare pranzi e cene a domicilio in tutto il triveneto. Fra forni, impastatrici e tavoli da lavoro pieni di delizie, in Calle Fiubera si procede a ritmi serrati per sfornare quei 3.500 chili di panettone che, anche quest'anno, entreranno nelle case dei veneziani, dei veneti e dei tanti italiani affezionati 


Panettoni decorati con glassa e caramelle
alla firma in corsivo che coccola i palati da fine Ottocento. Ma non solo: nella frenetica squadra di Rosa Salva c'è chi corre su e giù per il laboratorio con i nastri lucidi per chiudere i pacchi di Natale, chi mette a punto gli ultimi tacchini per i clienti che non cucinano ma ordinano i buffet a domicilio, chi aggiunge l'ultima casetta di zucchero ai tronchetti di cioccolata e chi, naturalmente, continua a servire caffè, cappuccini, brioches e budini al bancone del bar. È tempo di corse ma anche di ricordi, sempre pronti a spuntare dal cassetto dell'azienda veneziana che con i suoi ambitissimi catering ha messo a tavola re e regine, conti e contesse, presidenti della Repubblica, cantanti, attori e persino il duce: a Vittorio Veneto, nel 1923.
Ora che siamo nel pieno delle feste, è bello parlare di panettoni e creme chantilly, immaginando un laboratorio di pasticceria in bianco e nero ma pieno di quel profumo che sa di casa. “Lalo” ricorda bene com'era la vita di un pasticcere natalizio che non conosceva la tecnologia: «Quando ero bambino, negli anni '50, in laboratorio c'erano i forni a carbone e le celle di lievitazione. L'impasto del panettone veniva messo in una botte di Marsala tagliata a metà, a cui venivano attaccate delle ruote per trasportare il tutto nelle celle».«I pasticceri dormivano in laboratorio e spesso ci dormivo pure io, dentro il cassettone di un mobile – racconta ancora Lalo – Quando le varie fasi di lievitazione terminavano, si alzava un'asticella, scattava l'allarme e i pasticceri scendevano dal letto per lavorare l'impasto».
Non solo panettoni, ci sono anche i tronchetti natalizi
I tempi di preparazione di un panettone artigianale come quello di Rosa Salva sono lunghissimi, oggi come allora: dall'impasto al confezionamento passano 24 ore. «Impastiamo la sera – raccontano “Lalo” e Antonio – Dopo una lievitazione di 12 ore aggiungiamo gli agrumi e l'uvetta e lasciamo lievitare per altre due ore negli stampi, re-impastiamo il tutto a mano, procediamo con le ultime sei ore di lievitazione e con la cottura, che va dalla mezz'ora alle tre ore». Nel laboratorio di Calle Fiubera si producono dai 110 ai 220 chili di panettone al giorno. «Oggi la tecnologia aiuta molto – confessa Antonio – Le temperature sono regolabili e i lieviti stabili, riusciamo a programmare la produzione mantenendola artigianale ma con ritmi semi-industriali».

Velocità, tecnologia, grandi volumi, e tanta contabilità, che al secondo piano della pasticceria in Calle Fiubera si accumula quotidianamente. 
Rosa Salva è un'azienda storica in linea con la frenesia moderna, ma piena di ricordi, e anche di nostalgia, per i tempi in cui i nonni attaccavano i conti scritti a mano sulle ante degli armadi, l'ufficio era un tavolino a pochi passi dal bancone dei dolci e le signore in pelliccia aiutavano a curare il radicchio in laboratorio: «In fondo, però, la nostra pasticceria è sempre il solito porto di mare – chiudono Lalo e Antonio – Di qui passano i figli dei figli che hanno conosciuto i nostri nonni e bisnonni: lavoriamo in uno spaccato di venezianità ancora pieno di calore».

Testo e foto di Silvia Zanardi

giovedì 12 dicembre 2013

BrAgorà, il negozio dove si ricicla tutto


Nel negozio "Bragorà", vicino a Campo della Bragora a Venezia, tutto, ma proprio tutto è riciclato: anche i mobili dell'arredo
La caffettiera-lampada di Sara Trentini
Venezia – Prima dell'inaugurazione, i veneziani di Campo della Bragora si chiedevano cosa fosse: l'ennesimo negozio made in china? L'ennesima pizzeria al taglio? L'ennesimo “ripostiglio” di souvenir a basso costo? Niente di tutto questo: dallo scorso novembre, in Salizada Sant'Antonin, un negozio insolito e originale sta conquistando i residenti. Si chiama BrAgorà e tutto, al suo interno, è frutto del riciclo. Il camerino dove provarsi magliette e vestiti è una vecchia cabina telefonica, il bancone è un frigo da ristorante, la cassa è una Olivetti degli anni Settanta, la bilancia sembra uscita da un film in bianco e nero e un'intera parete è tappezzata di portabottiglie da cantina. BrAgorà è uno spazio, e un negozio, dove si comprano oggetti di design nati dall'assemblaggio e dal recupero di cimeli che tutti amiamo chiamare “vintage” e che, per questo, ci piacciono tanto. Ma chi ha creato tutto questo? La buona notizia è che lo spazio di “BrAgorà” – aperto anche a corsi, presentazioni e a matrimoni civili di qualsiasi orientamento – è un'estensione della veneziana OFFicina, il piccolo incubatore che, in Calle del Traghetto Ca' Rezzonico, è diventato famoso per le sue creazioni di abbigliamento personalizzabile (come le magliette con lo “spritz”), per la consulenza grafica rivolta ad aziende e a privati e allo smaltimento e riciclaggio di rifiuti speciali come i computer e i toner delle stampanti.
La borsa "Camoz" fatta con le vecchie vele cucite da Camilla Morelli
Replicando il “concept”di OFFicina, nel nuovo punto vendita BrAgorà convivono tre realtà: Re.Te. Srl, azienda che dal 2004 si occupa dello smaltimento, riciclaggio e riutilizzo di rifiuti speciali; Dei Rossi Shipping-Hi log, casa di spedizione specializzata nella laguna di Venezia che esegue trasporti in tutto il mondo, e LaMaia Desnuda, referente nel campo della personalizzazione di abbigliamento e articoli promozionali. In esposizione, a BrAgorà, ci sono oggetti d'arte, gioielli, materiali d'arredo e di design tutti ispirati al concetto di riutilizzo di materiali di scarto. Ma, al di là della vendita, “BrAgorà è un salotto dove chiunque, abitante o turista consapevole, può incontrare persone nuove, contribuire, specchiarsi o esprimersi”, dicono i fondatori. Ed ecco una prima lista di designer emergenti che espongono e vendono i loro oggetti di uso quotidiano: ci sono i “Nati con la camicia” di Raen Bonato, che realizza nuovi prodotti con stock di camiceria non più utilizzati; i gioielli di design di Andreina Brengola; i quadri da legno di risulta di Matteo Bertelli; le borse realizzate con le vele riciclate di Camilla Morelli e del marchio Camoz2. Ci sono i prodotti delle Malefatte e le immagini del fotografo Giacomo Martines attraverso www.tonki.it; interessanti sono anche la mappa di Venezia impermeabile e indistruttibile di Palomar srl; le lampade che nascono da telefoni e caffettiere di Sara Trentini; le insegne luminose dello studio architettura-design Ata (www.riluci.it); le ceramiche di Andrea Reggiani e le sculture giapponesi di Masaru. 


Pubblicato il 12 dicembre su La Nuova di Venezia e Mestre www.nuovavenezia.it

giovedì 5 dicembre 2013

Quante cose ha per la testa Monica Daniele...

Monica Daniele nel suo atelier veneziano di cappelli e tabarri in Calle del Scaleter. Il negozio è una miniera di colori e fantasia. 

Venezia - Da vent'anni, Monica Daniele trascorre le sue giornate nella casa dei cappelli, il negozio tutto colori, mistero e fantasia che, lungo Calle del Scaleter, è impossibile non notare. I più timidi si fermano davanti alla vetrina per curiosare, i veri e fedeli amanti del copricapo individuano subito il loro habitat naturale. Dentro c'è di tutto: ci sono pile di intramontabili panama, che arrivano dall'Ecuador, i modelli pork pie da uomo, che piacciono tanto ai musicisti, un'infinita serie di cappelli di lana che esplodono di creatività e una famiglia di inimitabili cappellini da cerimonia. Inimitabili, certo, perché nascono tutti dalle idee di Monica, così come i cerchietti da donna perfetti per i matrimoni con quel tocco di “british”.

Non è sempre facile, nel suo negozio particolarissimo, capire dove ci si trova: c'è l'angolo dei copricapi da uomo, dal quale spunta il gettonato modello “Corto Maltese”, quello dei cappelli di paglia, in assoluto i più indicati per ripararsi dal sole estivo, e quello pieno di femminilità che salta all'occhio come un intrico di velette colorate, piume, bottoni, uccellini, fiori e nastri che fanno tanto pensare a Kate Middleton e alla Regina d'Inghilterra. Monica Daniele crea e decora a mano gran parte dei suoi copricapi e un'altra parte raggiunge la laguna arrivando da aziende internazionali che li realizzano in base a modelli da lei commissionati.

L'amore per la moda ce l'ha nel sangue: cresciuta in una famiglia di sarte, ha iniziato a riempire della sua arte questo negozio all'inizio degli anni Novanta, quasi per caso: «Mi ero diplomata all'Accademia – racconta – ma più che una carriera da pittrice, mi interessavano molto il recupero dell'usato e la sartoria. Dopo aver aperto un negozio vintage nei pressi di Campo San Polo, mi sono specializzata in cappelli e ho avviato questa attività, che tuttora mi dà molte soddisfazioni».

Un ringraziamento va alle tante signore anziane che al suo primo negozio, bussavano per chiedere caldi cappelli per l'inverno: «Mi sono resa conto quasi subito che indossarli, per i veneziani, è indispensabile: camminiamo sempre a piedi, esposti al gelo dell'inverno e al caldo dell'estate – spiega Monica Daniele – Per questo ho deciso di dedicarmi a essi affiancandoli ai tabarri, che i diplomatici europei amano tanto indossare sopra lo smoking».
I tabarri sono da sempre l'altra specialità di Monica, complementare a quella dei cappelli, grazie ai quali nascono originali e vistose combinazioni. Una su tutte: quella con il classico tricorno veneziano. Addirittura Steve Jobs ha comprato da lei un tabarro, attraverso la sua agenzia. «Di cui sono passati diversi clienti famosi – racconta la modellista –. Il batterista dei Metallica, per esempio, e poi Donald Sutterland, Susy Bladi, Giuliana Sgrena. Ho una buona clientela di giovani, di cui molti “addetti ai lavori” del settore moda o cultori di stili avantgarde, fino ai dandy molto attenti ai dettagli».
Uno dei modelli di cappello più richiesti è il Fedora tinta vinaccia, ispirato a un'immagine in cui il poeta Ezra Pound ne indossa uno simile. E se nel nutrito gruppo di clienti affezionati ci sono ancora molti veneziani, Monica Daniele si è ormai abituata a parlare diverse lingue. «Gli australiani sono sicuramente fra i più colti e attenti amanti del cappello – spiega –. Sono abituati a portarlo per proteggersi dal sole e cercano soprattutto la morbidezza dei materiali». Ma un vero boom, in fatto di cappelli, sta interessando il pubblico giapponese: «Negli ultimi anni ho servito moltissimi turisti provenienti dal Giappone, che prestano molta attenzione a riparare il capo dai raggi del sole, fatali per il cancro alla pelle».

giovedì 28 novembre 2013

"Venezia nel piatto", ai fornelli c'è Enrica Rocca

Enrica Rocca durante una "cooking class" nel suo appartamento a Venezia. I suoi allievi sono turisti e appassionati di cucina
Venezia - Puoi riempire una valigia dopo l'altra, fare tuoi stili di vita opposti a quelli con cui sei cresciuto. Ma ovunque si vada e qualunque cosa si faccia, l'unico linguaggio universale resta il cibo. Attorno a un tavolo imbandito si torna alle origini di piccole e infinite opere d'arte che nascono dalla natura per vivere in bocca. A casa di Enrica Rocca accade tutto questo. Con ospiti sempre diversi, che entrano in cucina come allievi e poi diventano commensali: incontri fugaci di un giorno, un’altra Venezia da mostrare a chi arriva da fuori. «A tavola» dice lei «crollano le inibizioni. Si parla di tutto, ci si lascia andare e il bello è farlo con persone che non si conoscono».
E sarà interessante, domani, scoprire cosa ci propone il nuovo libro di Enrica, "Venezia nel piatto...ma che piatto!", edito da Marsilio, corredato dalle foto di Jean-Pierre Gabriel e dall’introduzione di Pierre Rosenberg, presidente e direttore del Musée du Louvre. E' un libro dedicato alla memoria gastronomica veneziana e i piatti sono fotografati su (autentici) vetri di Murano.
Fra un piatto e l'altro, meglio prendere appunti
Discendente di una nota famiglia veneziana, Enrica Rocca ha negli occhi l'entusiasmo di chi è riuscito a salire in groppa alla passione e a non scendere mai da sella. Da vent'anni tiene corsi di cucina a casa sua. Essendo una giramondo, le sue case sono più d’una: ha iniziato a fare scuola a Cape Town, dove ha vissuto per quindici anni, ha proseguito con Londra e ora ha inaugurato i corsi a Venezia. Per stare dietro a tutto, la regola è una sola: non fermarsi mai e liberare le idee. Le sue parlano di basilico fresco, pomodori polposi, sposalizi fra carni, frutta e ortaggi. 
A conoscerle meglio sono gli stranieri che vengono in vacanza a Venezia e, nella visita turistica, includono un corso di cucina italiana nel suo modernissimo appartamento alle Zattere. Oppure i londinesi “stanziali” o di passaggio che la raggiungono nella sua abitazione british per la lezione: a seconda delle opzioni, il costo va dai 200 euro in su a persona.
Trascorrendo una giornata intera con Enrica, che a Venezia comincia con il tour del mercato di Rialto e finisce con una cena a casa sua, si impara ma, soprattutto, si assapora la vita del cibo. Le indicazioni sulla scelta dei prodotti freschi e di qualità esulano dall'astrazione a onor della creatività: fra i banchi degli ortaggi, della frutta e del pesce di Rialto, e dei mercati londinesi di Portobello e Borough, si tocca e si annusa per credere e per capire. E poi si agisce a suon di mestoli e coltelli, fili d'olio e spruzzate di sale.
"Studenti" stranieri a lezione da Enrica Rocca a Venezia 
Il suo appartamento veneziano è attrezzato per ospitare dalle otto alle dieci persone; il tavolo è grande abbastanza per permettere agli ospiti di affettare melanzane e zucchine in libertà; il forno è sempre acceso, infaticabile è l'attività delle tre lavastoviglie. In poche ore, i programmi culinari della giornata si trasformano in risotti allo zafferano, fegatini alla veneziana, tortini di zucchine e ricotta, arrosti di vitello al rosmarino e code di rospo. al prosciutto di Parma. I vini di accompagnamento sono studiati e introdotti da un sommelier esperto, a Venezia il compito è di Lorenzo Menegus.
Celebrata nelle riviste internazionali, amata dagli stranieri e quasi sconosciuta ai concittadini, Enrica Rocca non si ferma: prossimo obiettivo, la conquista di Tokyo.

Testo e immagini di Silvia Zanardi

Link alla pubblicazione su "La Nuova di Venezia e Mestre"

martedì 26 novembre 2013

Quando a Venezia si incontrava la regina

In questa immagine di Giovanni Puppini, una giovane regina Elisabetta si fa fotografare in Piazza San Marco, a Venezia

Venezia - Uscivi da scuola, ti levavi la maglietta e prendevi a calci il pallone fino a ora di cena. A Carnevale c’erano le giostre in Campo Santa Margherita e le sirene non annunciavano l’acqua alta: quando arrivava bisognava “cavarse ’e scarpe e tirarse su ’e maneghe”. La vita era quasi tutta fuori. Fuori dagli umidi pianterreni devastati dall’ “acqua granda” del ’66 e il più possibile dentro a una Venezia così bella da far dimenticare la miseria. Passeggiando per San Marco poteva capitare di sfiorare la mano di una giovane regina Elisabetta, ma c’erano vecchiette di Cannaregio che così “in là” non si erano mai spinte: in Piazza ci si doveva andare in “ghingheri” e non erano cose da tutti. Ma la neve, come oggi, arrivava per tutti bianca e lucente a coprire d’inverno palazzi e campanili, a stendere un velo di silenzio da ammirare da dietro le finestre. 
Giovanni Puppini mostra il suo libro sulla Venezia anni '60
In questo spaccato di Venezia anni Sessanta, Giovanni Puppini, classe 1941 e socio del circolo fotografico “La Gondola”, era un giovane fotoamatore che di mestiere insegnava geografia economica all’Algarotti. Girava per la città con la macchina fotografica appesa al collo e si fermava a scattare quando l’occhio chiamava: di ritorno da una giornata di scuola, in una domenica di festa, all’arrivo di grandi personaggi come i reali d’Inghilterra o Papa Paolo VI. Per pura passione, e con una buona dose di talento, ha impresso nei suoi rullini in bianco e nero tracce di una vita veneziana a cui si guarda con la classica nostalgia per un presente lontano. Sono stralci di quotidianità che, dopo la pensione, Puppini ha raccolto, diviso per tema e pubblicato in un libro, edito da Cierre Grafica, intitolato “Venezia anni Sessanta”, introdotto dall’accurata prefazione di Giuliano Zanon. “Mi è sempre piaciuto fotografare», racconta Puppini. «L’ho fatto per hobby e continuo a farlo anche oggi, a colori e in digitale, anche se la mia passione resta l’analogico».
Nel suo archivio casalingo, Puppini custodisce migliaia di scatti di Venezia e di alcuni viaggi all’estero compiuti con le sue classi scolastiche e con la moglie Franca. Oltre a innumerevoli ricordi in formato 6x6 degli altri suoi “amori”: la montagna e la voga. Da qualche anno, mettendo a frutto il tempo libero concesso dalla pensione e dividendosi fra la fotografia e i suoi pomeriggi da nonno, ha iniziato a selezionarli. Le pagine di “Venezia anni Sessanta” sono un tuffo nella città dai quasi duecentomila residenti che oggi si cerca nei libri e nei racconti. «A Cannaregio, dove abbiamo sempre abitato, c’era addirittura un negozio di biciclette per i bambini», racconta Giovanni con la moglie Franca. «Turisti se ne vedevano pochi e quei pochi erano ricchi e altolocati. Si sa che Venezia è cambiata, ma noi siamo contenti di vivere ancora qui: stiamo bene e non abbiamo mai pensato di trasferirci in terraferma, non sarebbe la nostra casa. Siamo e restiamo veneziani».
Ecco come ci si "arrangiava" con l'acqua alta
La città in bianco nero di Giovanni Puppini è quella dei pescatori che rammendano le reti lungo le calli; quella dei campi pieni di ragazzini che giocano a cimbali e a massa e pindolo; quella dei ganzer, i gondolieri in pensione che in cambio di un obolo, con un bastone munito di gancio (il “ganso”, in veneziano), aiutano le gondole ad accostarsi agli ormeggi. Ma è anche la Venezia del periodo postbellico, con la densità abitativa ai massimi storici ma singhiozzante e sofferente per la crisi dei comparti tradizionali: l’Arsenale, l’attività industriale del Molino Stucky, il cotonificio, il porto, i cantieri navali. Una crisi che aveva portato miseria, disoccupazione e precarietà, culminata con la disastrosa acqua alta del 1966, che ha privato molti veneziani delle condizioni minime per vivere in salute nel centro storico. Giovanni ha fotografato tante acque alte ma di questa, nel suo archivio, non c'è traccia: «Quella mattina, la macchina l’ho lasciata a casa», racconta Giovanni. «Sembrava che ci fosse stato un bombardamento. La situazione era drammatica e dovevo dare una mano. La fotografia era l'ultimo dei miei pensieri».

Testo di Silvia Zanardi, foto di Silvia Zanardi e per gentile concessione di Giovanni Puppini